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La fortuna di insegnare lettere

20 settembre 2016

La fortuna di insegnare Lettere è quella di insegnare domande, cercare di coltivare e diffondere (se ci sei veramente riuscito, tu - domanda beffarda e sublime - non lo saprai peraltro quasi mai) dubbi, vertigini, spaesamenti, quelli che nascono anche o soprattutto dagli attriti e dalla pluralità di prospettive.

Gli opposti che si attraggono, o meglio: che convergono, si dicono qualcosa, ti dicono qualcosa, se va proprio grassa ti squarciano qualche velo di epidermide.

Ieri pomeriggio mi ero preparato una lezione, con tabelle e mappe concettuali, sui principali complementi nella grammatica italiana, sforzandomi di renderla interessante. Poi nella notte, a Parigi, al Bataclan, è successo quel che è successo, tu lo hai appreso solo stamattina en passant, non c'era tempo di approfondire, dovevi andare a scuola e hai letto le prime informazioni di servizio, vaghe, approssimative e confuse. Ammetto: soprattutto hai letto il solito ignorante giustizialismo che Facebook rende soltanto più pronunciato.

Il problema è che credi che insegnare sia un po' come andare a fare un lungo viaggio in una terra ignota: puoi essere organizzato e rigoroso quanto ti pare, ma l'imprevisto è sempre in agguato e se non sai improvvisare, o quantomeno se non sei nemmeno aperto a tale evenienza, quello fa presto a ghermirti.

Cosa cazzo me ne frega dei complementi? Come potranno essere utili, per non dire interessanti, se per primo a me, oggi, non dicono nulla? Se non li faccio oggi, poi non è che mi entreranno trenta esercizi di analisi logica in meno? Il complemento di specificazione risponde a di chi di che cosa, e quindi? Mi sono fatto queste domande e mi sono risposto: Che palle la grammatica esatta e le figure retoriche a menadito!

Stamattina non ho voluto insegnare, non ho fatto il mio dovere. L'ho preso come il mio personale minuto di silenzio. Allora ho improvvisato e mi sono inventato altro: ho creduto che di retorica e di buoni pensieri la scuola sarebbe stata piena, stamani. Ormai mi sento di conoscerla, e interpretarla, bene - limiti suoi e non meriti miei - e non mi sbagliavo: multiculturalità, educazione alla tolleranza, i termini più gettonati nelle varie circolari che sono passate.

Ho creduto che si dovesse andare più a monte, abbandonare la strada diretta e prendere la laterale, se possibile tangente; quindi non il santino dell'Islam, il pamphlet sulla complicità dell'Occidente, la lettura critica della Fallaci, la preghierina più o meno laica, e via dicendo.

Ho creduto che cercare di comprendere, iniziare a farlo qui e ora, i fatti ma anche le persone e le loro ragioni, comprendere gli altri prima di giudicarli, ascoltarli e ascoltarsi tutti insieme, potesse, e possa, essere un punto d'inizio vagamente decente. Nemmeno lontanamente la soluzione, ma una domanda-stimolo forse sì.

Quindi sono tornato al mio grande amore, il Cinema, e ho fatto vedere "La parola ai giurati" (1957) di Sidney Lumet, che con Parigi, l'Isis, Charlie Hebdo e i “bastardi islamici” (“Libero”, vergogna!) non c'entra niente. C'entra, molto più semplicemente, con l'essere e con il restare umani – peraltro in un bianconero ricco di struggenti gradazioni di grigio di Boris Kaufman.

L'ho introdotto appena, ho vagamente spiegato i motivi per cui lo stavo mostrando, ma perlopiù ho voluto che "arrivasse"; e non so come, non so perché, né so se è vero o se è tutta una mia fantasia, fatto sta che sono tornato a casa con la sensazione che, pure nella società afasica e balbettante di oggi, una nitidissima scrittura e delle immagini eloquenti non abbiano bisogno di preamboli. Di preamboli complemento di specificazione. Specie i miei.

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