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Tempi che cambiano: come adattare la formazione al nuovo mercato del lavoro

26 agosto 2016

Il tema della formazione è uno di quelli che riesce a coinvolgere tutti gli attori sociali: giovani, genitori, professori di liceo o universitari. I ritmi della società moderna sono scanditi dal cambiamento, perenne, imprevedibile, difficile da seguire con una logica. E il termine cambiamento è spesso portatore di incertezze, soprattutto quando tocca in primo piano il mercato del lavoro.

Il mondo cambia, quindi, e muta il contesto lavorativo nel quale dobbiamo inserirci finita la scuola. E più si evolve più è difficile riuscire a tenere il passo per non perdere di vista l'obiettivo e, in generale, per non perdersi. Come può la formazione adattarsi a quella che il sociologo Bauman ha definito società liquida?

Come si possono sperimentare nuovi percorsi formativi quando alcuni mestieri tradizionali stanno perdendo il loro status, offrendo prospettive di carriera e stipendi sempre meno allettanti? Gli studenti scelgono di andare all'università e fanno una scelta sulla base dello scenario attuale, destinato a cambiare. Dall'altro lato, governi, università e docenti cercano di investire sull'istruzione, ma anche in questo caso fanno riferimento al presente, non a possibili prospettive future. Esiste un modo per far sì che la formazione si adatti alla mutabilità di questo mercato del lavoro? Sicuramente ci sono dei fattori che possono essere analizzati per favorire tale adeguamento.

1. Secondo gli ultimi dati della Ocse-Pisa, l'Italia (e il mondo in generale) soffre di una forte carenza di persone formate nelle materia scientifiche. Assurdo ma vero: i posti di lavoro ci sono, mancano le risorse. Cosa succede in questo caso? Tali mancanze vengono colmate con personale proveniente dall'estero. Scegliere una specializzazione scientifica è al giorno d'oggi una scelta giusta.

2. A tal proposito, si deve fare in modo di impedire la fuga di cervelli. L'Italia è piena di giovani talentuosi che a un certo punto, mossi da ambizione e voglia di fare, semplicemente vanno via perché qui non ci sono condizioni materiali di crescita. Cosa si dovrebbe fare? Fare in modo che le menti più brillanti possano trasformare le loro idee in business, diventando imprenditori di se stessi. Se un'azienda non ti assume, beh, potresti crearla tu.

3. Le lingue sono il terzo spunto di riflessione: gli italiani, al di là dei falsi miti, non sanno l'inglese. Lo parlano male, a stento lo capiscono. Questo tipo di investimento non può essere sottovalutato perché non serve solo a promuovere una carriera internazionale. Avete mai pensato che posti come le isole del nostro paese potrebbero tranne un beneficio pazzesco nel settore del turismo, così come potrebbero fare lo stesso le piccole aziende esportatrici?

4. Un settore nel quale si dovrebbe puntare, poi, è quello dei mestieri antichi, gli stessi che oggi nessuno vuole più fare perché considerati poco prestigiosi. In realtà, l'Italia è sempre stata al primo posto nei lavori manuali, dall'agricoltura all'artigianato, dalla filiera dell'elettricità a quella dell'idraulica. E l'unico modo per rispondere al deficit che caratterizza questi campi è rilanciare e rivalutare la formazione tecnico-artigianale, anche dal punto di vista dello status sociale.

5. Se non si vuole fare la scelta sbagliata, inoltre, bisogna sempre puntare un occhio al futuro, analizzando con sguardo vigile l'evolversi di alcuni aspetti demografici. Quali settori lavorativi hanno bisogno di personale oggi? Pensateci: è il miglior punto di partenza per un decisione consapevole e oculata.

6. E per concludere, la formazione può adeguarsi ai tempi che corrono se lo facciamo noi. Cosa vuol dire? Avete presente la frase "Non si finisce mai d'imparare"? Fatela diventare il vostro mantra. Perché oggi non basta la laurea. Non è quello l'ultimo step. Ve lo dico per esperienza personale. Ma non vedetela come una sconfitta: si tratta della cosiddetta flessibilità. Adattatevi e vedrete che ce la farete, in un modo o nell'altro.

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