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Prima prova Maturità 2014 – Saggio breve Storico-Politico: Violenza e non violenza, due volti del Novecento

18 giugno 2014

Violenza e opposizione dal Novecento al Duemila.

Nel secolo che fu testimone dei due maggiori eventi bellici della storia, la riflessione su violenza e non violenza assunse forme fortemente influenzate dalla situazione politica di allora; forme che nel nuovo millennio sembrano aver perso la loro valenza originaria.

Dal punto di vista filosofico, la questione della violenza si pone in modo poliforme. Nelle specie animali lo stimolo vitale dell’aggressività assolve a funzioni indispensabili, come la riproduzione e l’attribuzione dei ruoli e delle gerarchie sociali; Hannah Arendt sostiene che anche per buona parte della storia umana la violenza sia stata esaltata come una manifestazione creativa della forza vitale. A partire dal Novecento, tuttavia, la tecnologia bellica ha raggiunto una potenzialità distruttiva tale da spingere le nazioni a un atteggiamento prudente nella gestione della violenza.

Al termine della Prima Guerra mondiale, scrive George Mosse, si ebbe in molti Paesi europei un processo di  brutalizzazione che rese le persone meno attente alle forme della vita. Questo causò un aumento non solo della criminalità, ma anche di un attivismo politico violento e battagliero, che non fece altro che preparare le basi per l’esplosione del secondo conflitto mondiale.

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Risale a questo periodo la riflessione di Walter Benjamin, ancora oggi perfettamente attuale, in cui si individua nel diritto allo sciopero l’unica forma di violenza consentita ai civili, e più precisamente ai lavoratori organizzati. Si tratta tuttavia di una violenza creativa, che ricorda il pensiero di Ghandi: invece di una reazione aggressiva, la guerra si manifesta nella forma di una non accettazione collettiva, una resistenza congiunta e consapevole a un nemico comune. Tutt’oggi il principale compito degli organi sindacali rimane quello di organizzare un’opposizione unita dei lavoratori nei confronti dei datori di lavoro.

Dopo la Seconda Guerra mondiale, la violenza su scala globale iniziò a cambiare, a raffreddarsi: oltre ai casi di resistenza non violenta, cambiò il modo stesso in cui vennero gestiti i conflitti. Cominciò il periodo ricordato (non a caso) come Guerra fredda, fatto di spionaggio, alleanze internazionali e pressioni politiche, con i conflitti ridotti a guerre locali sotto la minaccia costante di una catastrofe atomica completa. Un periodo che, oggi si vede chiaramente, non è tramontato del tutto.

A chi si guardi indietro oggi, il Novecento appare come un secolo di transizione: gli orrori e le cicatrici dei due conflitti mondiali hanno costretto l’umanità a rivedere il suo modo di gestire i conflitti. Si possono trovare molte conferme di questo accresciuto controllo della violenza nelle Costituzioni che gli Stati si sono dati dal 1945 in poi, con una generale diminuzione della tolleranza sia nei confronti delle persone che delle altre nazioni: si potrebbe prendere come esempio l’abolizione della pena di morte in quasi tutti gli stati sul cui suolo venne combattuta la Seconda Guerra mondiale (mentre tale pena è ancora applicata in molti luoghi che non subirono direttamente il conflitto, come alcuni degli Stati Uniti).

Tramontato quel secolo complesso che fu il Novecento, cosa rimane della sua riflessione sulla violenza? Hannah Arendt, nel suo saggio “Sulla violenza”, riporta che la generazione odierna ha una situazione mentale inquieta, frutto di una fusione quotidiana di violenza, vita e creatività.

Un fenomeno in larga diffusione ai nostri giorni è il disinteresse dei giovani nei confronti della politica; molti opinionisti e sociologi se ne domandano il perché, e forse una possibile spiegazione si può trovare proprio in questa riflessione.

Nel nuovo mondo fatto di informatica, lavoro autonomo e differenziazione a ogni livello, appare tramontata l’epoca delle divisioni rigide tra le classi sociali dell’età industriale. La politica, la legislazione e la burocrazia sono tuttavia ancora molto legate a quei concetti, che oggi appaiono sempre più obsoleti. In assenza di un fronte comune di lavoratori e di difficoltà di classe, oggi gli stessi scioperi vengono percepiti sempre meno come forma legittima di opposizione non violenta: i tempi e la società sono cambiati.

Oggi, nel mondo della comunicazione informatica, è comparso un nuovo modo di mettere in pratica le parole di Gandhi e Martin Luther King: oggi si può esprimere con un click il proprio apprezzamento a un contenuto o un’affermazione: il “Mi piace” di Facebook e il “+1” di Google Plus ne sono due chiari esempi. In un mondo in cui è facilissimo manifestare il proprio sostegno, anche la resistenza non violenta si è trasferita alla comunicazione: quando si vuole sostenere un contenuto, si clicca “Mi piace” e lo si condivide con gli amici; quando non piace, semplicemente lo si ignora. Non parlandone, si sottrae visibilità al contenuto e quindi lo si indebolisce: quale migliore applicazione dell’idea di opposizione consapevole e non violenta?

Certamente questo è un concetto che difficilmente potrà essere compreso e condiviso da chi abbia vissuto sulla propria pelle le divisioni laceranti del Novecento, ma forse è proprio in direzione dei Social Network e della comunicazione informatica che si svilupperanno le future riflessioni filosofiche su questo tema.

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