#Diario del Professore

L'appello

17 maggio 2016

Probabilmente 'sta cosa potrebbe costarmi il titolo di prof più fancazzista d'Italia. Anzi, sicuro. Però è una roba in cui credo e quindi vado, faccio un coming out che manco Tiziano Ferro qualche anno fa.

Vado? Vado.

Ogni giorno, perdo sempre dai dieci ai venti minuti per fare l'appello. Una volta, un paio di settimane fa, un'ora intera.

Anche se entro due ore dopo, anche se gli assenti si vedono subito guardando i banchi vuoti, anche sono già scritti sul registro.

Ok, forse il più fancazzista d'Europa.

Funziona così. Uno per uno, li guardo bene in faccia, gli chiedo come stanno. Parto da domande idiote tipo «Cos'hai fatto ieri?» o «Cosa guardi in tv?», per buttare lì qualche parola nuova, per parlare di quello che è successo nel mondo, per raccontare qualche aneddoto di storia o qualche pezzo di libro che magari assomiglia a quello che stanno passando loro adesso.

Se hanno qualcosa di strano negli occhi, gli chiedo che c'è. Poi è ovvio: hanno tredici anni, se c'è qualcosa che non va a casa, o con il ragazzo che gli piace, mica te lo vengono a spiattellare lì davanti a tutti. Però intanto sanno che qualcuno se n'è accorto. Non si vedono passare inosservati.

Quasi sempre, alla loro età, le cose iniziano a mettersi male da lì: se ti rendi conto che stai passando inosservato.

(Oppure, vabbè, in quella fase oscura in cui entri nel tunnel dei poster degli One direction e ti vedi già all'altare con uno di loro).

Dai dieci ai venti minuti, così. Una volta un'ora intera.

È un sacco di tempo, lo so. È che l'appello non è un momento qualsiasi: è il momento in cui sei chiamato ad essere presente.

Alla fine è quello, lo scopo. Di tutto, dico. I libri, gli esercizi, i professori, le materie, tutte le materie: è a quello che dovrebbero servire.

Chiamarti. Tirarti fuori dal tuo buco. Chiamarti ad essere presente.

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