«Siamo stanchi di diventare giovani seri, o contenti per forza, o criminali, o nevrotici: vogliamo ridere, essere innocenti, aspettare qualcosa dalla vita, chiedere, ignorare. Non vogliamo essere subito già così sicuri. Non vogliamo essere subito già così senza sogni».
Così scriveva Pier Paolo Pasolini non molti anni fa, ma per chi come me vuol fare Scuola nell’essere Scuola queste parole diventano ogni giorno sempre più presenti e vive. Le sento come un’esame, quello più importante per una persona: quello di coscienza. E non lo penso solo da insegnante ma anche come madre. Mi sforzo ogni giorno di insegnare la passione, quella materia che non rientra nelle ore disciplinari ma senza la quale tutta la vita non avrebbe senso. La passione per reagire e dissentire alle sproporzioni di un’immoralità che deforma le vere fattezze di un’esistenza. Quella che ci vorrebbe indifferenti. Indifferenti alla partecipazione, all’esaltazione, al coraggio di sognare. La passione del coraggio, della comprensione di quell’onestà intellettuale che guida al desiderio del cambiamento.
Sì, perché abbiamo il dovere e la necessità di cambiare. Cambiare per noi, per i nostri figli, per i nostri studenti. Cambiare non per lasciare tutto come prima, ma cambiare per non compiacere un mondo popolato di maschere. Insegnare la passione vuol dire anche far pronunciare quei no alla serietà, al sentirsi colpevoli di una società che di questi ragazzi si sta disinteressando, dire no all’omologazione del pensiero, al vivi e lascia vivere, alla comodità dell’essere invisibile.
Oggi come non mai mi sento di accendere quello sprazzo di speranza che rimanda a domande e non a risposte criptiche e sterili, non a soluzioni ma a tragitti di visioni. È un percorso a tratti doloroso. Non possiamo più permetterci di guardarci allo specchio e vedere il riflesso di quello che crediamo di vedere. Dobbiamo, insegnanti e genitori, guardare al di là della nostra immagine conformata ai nostri dogmi, levare le nostre verità incorniciate in quadri pieni di virtù approvate in nome dell’esperienza e del nostro esercizio quotidiano, e riguardarci come ci vedono quegli occhi che ogni giorno cercano da noi l’incontro, un appuntamento con volti che sappiano riconoscere i propri limiti. Perché anche al sapere, alla conoscenza, all’esperienza, c’è un limite. E per chi lo riconosce diventa una virtù.
Il limite umanizza e i nostri figli e i nostri studenti hanno bisogno della profondità del limite. Non possono essere tutto, non possono avere tutto, ma devono trovare la fantasia del sogno, dell’aspirazione. La sete della passione, quella nostalgia dell’insicurezza, quella brama di arrampicarsi, di provare a seguire la propria voce, le proprie aspirazioni, i propri talenti.
Nessuno vuole essere senza sogni, nessuno mai, e in nome di Tommaso e dei miei studenti io non li farò aspettare, chiedere, ignorare. Non li farò mai vivere senza sogni ma li farò entrare nelle loro barriere per descriverle e narrarle. Solo allora avremo insieme la forza, il desiderio, lo slancio di appartenerci nell’insicurezza del dubbio. Solo allora potremo spingerci verso luoghi in cui mai avremmo immaginato di poter arrivare: ridendo, rimanendo innocenti, aspettando qualcosa dalla vita, chiedendo, ignorando.