Si tende a dire che il volontariato sia un gesto disinteressato, un dare senza aspettarsi nulla in cambio. Ma questa narrazione, per quanto nobile, semplifica e svuota il suo senso più autentico. Se continuiamo a considerarlo solo come un atto di carità, perdiamo di vista la sua natura più radicale: il volontariato è, prima di tutto, un atto politico. Non nel senso delle ideologie, ma nel significato originario: è cura della polis. Della collettività. Degli spazi comuni. Delle vite altrui. Per questo il volontariato non è solo gentilezza. È una presa di posizione. È scegliere dove stare in un mondo sempre più anestetizzato, dove l’indifferenza è diventata un meccanismo di difesa. Chi fa volontariato rifiuta l’anestesia del mondo. Non si sottrae, non si chiude. Resta. Dentro le cose, dentro le storie, dentro il presente.
L’equivoco della gratuità
Molti pensano che il volontariato sia gratuito perché non c’è uno scambio economico. Ma è un’idea sbagliata. Il volontariato ha un costo enorme. Il tempo, l’energia mentale, lo sforzo di stare accanto all’umanità, e la pazienza di confrontarsi con i limiti delle strutture. Non si può banalizzare tutto questo con la parola “gratuito”, come se si trattasse di un atto leggero. È esattamente il contrario: è un atto denso, faticoso, che cambia i contorni della propria identità. Ed è proprio questo prezzo — invisibile ma reale — che rende il volontariato un’esperienza che arricchisce. Una delle poche capaci di dare spessore a chi siamo. E non solo in termini di crescita personale. Parliamo di lucidità sociale: la capacità di vedere i meccanismi invisibili che generano disagio, disuguaglianza, marginalità. Il volontariato è un sistema di osservazione attiva: chi lo pratica si accorge di cose che prima non vedeva — perché non poteva, o perché non voleva.
Perché serve davvero. Anche ora. Soprattutto ora.
In un tempo in cui le relazioni si consumano in forma di notifiche, scegliere di esserci davvero per qualcuno è un gesto quasi controculturale. Il volontariato non è un semplice passatempo per anime buone. È una forma di presenza consapevole e significativa. È imparare a guardare le persone in modo radicale, cioè fino alla radice. In un mondo che tende a rendere tutto superficie — la comunicazione, l’empatia, perfino l’indignazione — il volontariato ha il potere di riportare le cose alla loro tridimensionalità. La realtà torna a essere solida, complessa, umana. E fa paura. Ma è proprio in quella complessità che si scopre quanto sia insensato rimanere fermi.
Una proposta: cambiamo il modo in cui lo raccontiamo
Forse dovremmo iniziare a raccontare il volontariato non come un semplice “fare del bene”. Forse dovremmo iniziare a dire che è educazione alla profondità. Che è apprendimento reale, apprendimento umano. Che è un allenamento alla cittadinanza attiva, al pensiero critico, alla responsabilità. Che è uno dei pochi luoghi in cui si impara a non voltare lo sguardo. Basta pensare al volontario come al santo. Pensiamolo come a chi, con tutte le sue paure, le sue insicurezze, ha deciso di esserci comunque. E di fare qualcosa che conta, anche se non si vede. Anche se nessuno applaude. Perché la presenza non fa rumore, ma lascia tracce.