Caro Thomas con l’acca, come dicevi tu, oggi è giunto il momento di scriverti quella lettera che ho sempre portato con me. L’ho conservata con cura, per paura di perderla, per paura di non saperti dire le parole che avevano il sapore della vera vita. Oggi hai 23 anni, lavori, vivi con i tuoi genitori, gli zii che ti adorano e la tua sorellina. Bionda e con gli occhi azzurri come te. Solo un po’ meno a mandorla. Il nostro primo incontro non è stato proprio dei più facili.
Stavo salendo le scale della scuola quando ho visto due persone, anzi tre: una era all’inizio delle scale con le braccia aperte e, l’altra, alla fine del corridoio nella stessa posizione. E tu in quel corridoio eri il re incontrastato. Correvi, ti buttavi per terra, prendevi tutti i cappotti appesi e li lanciavi in aria, prendevi a calci le sedie e ridevi come un bambino che non voleva toccare la terra, troppo triste per giocare e sollevare le nuvole. Quando mi hai vista, hai fatto finta di nulla e in un attimo hai sorpassato le braccia tese e sei corso fuori dal cortile verso la vita.
Sono passati giorni prima di conoscerci, anzi, di riconoscerci, e mi ricordo ancora qual è stato il momento in cui siamo passati dalla stessa parte. Stavi correndo e finalmente io ti ho preso e sono riuscita a prenderti la mano. L’ho stretta e senza accorgermene ti ho detto: «Thomas che paura mi hai fatto prendere!».
Io non volevo un allievo ideale e tu un’insegnante che ti riempisse la testa di cose che non ti interessavano. Stavamo in classe e tu eri la mascotte, tutti ti volevano bene, tutti tifavano per te, per noi per la nostra storia. Ti avevo incontrato che non portavi neanche la cartella e dopo un po’ ho incominciato a portarti fuori, a insegnarti la via, a prendere il tram, a comprare le caramelle e aspettare che ti dessero il resto. Poi hai voluto conoscere la mia casa, i miei figli, la mia cagnolina e da allora tu sei stato l’ospite più desiderato che una famiglia potesse ambire.
Abbiamo lottato insieme io e i tuoi occhi, ti ho difeso anche quando non avrei dovuto. Perché persone che non riescono a guardarti negli occhi, non sono degne di ascoltare le tue emozioni, e di dividere con te quello che tu dai al mondo. Infiniti atomi di pregiudizio scalfiti da perle disperse nel raro mare dell’indifferenza. Quelle persone che non ti hanno reso attore della tua vita e non ti hanno dato la speranza di essere il protagonista del tuo futuro, perché solo i figli degli altri sono cretini, e non sanno che se non ci sei tu la scuola non sarebbe la stessa. Ma si sono dovuti ricredere guardandoti l’ultimo giorno di scuola quando eri al centro del palco.
Io, insegnante di musica, prestata al sostegno per tappare buchi che non vogliono vedere, nonostante tu e tanti altri fate al mondo quello che fa Persefone alle stagioni. E quel giorno, sul palco, ballavi e cantavi all’estate mentre la vita ti stava a guardare. Qualche giorno fa, ma quest’anno ti ha portato anche una lettera da una sognatrice come te e se non riesci a leggerla te la sussurro: «Quando sei triste e qualcuno non si accorge che non serve rinascere un’altra volta per poter essere quello che tu insegni a noi ogni volta che sorridi, guarda il cielo e mi troverai lì. Ma non tra le stelle, spostale un po’, soffiale via. Mi troverai nel tuo cielo dove sorge sempre l’arcobaleno che non vede gli occhi a mandorla ma solo ragazzi che si divertono a sbeffeggiare la vita e portare fuoco dove abitano anime indurite da una via diritta e senza ostacoli. Thomas con l’acca rimani sempre quello che sei e insegna a chi ti trova a costruire treni. Perché solo tu sai le tappe del tuo viaggio che durerà tutta la vita.»